di Matteo Salvador (2017)
Qualche parola gliela devo, a Giancarlo Rossetti, anche se mi trovo ancora a metà strada fra l'incredulità e l'accettazione del fatto che non busserà più alla mia finestra all’ora di cena, per chiacchierare fino a notte sorseggiando un caffè e masticando un toscano rigorosamente spento.
Giancarlo era un uomo generoso. Non c'è cosa che io abbia fatto negli ultimi anni in cui lui non abbia avuto la sua parte.
Circa un anno fa avevo stabilito, di punto in bianco, di camminare da solo lungo il Tagliamento partendo dal Passo della Mauria fino a dove le mie forze avrebbero retto. All'inizio aveva scosso la testa, poi mi aveva preso in giro ipotizzando che fosse l'imminente crisi dei quaranta, alla fine aveva deciso di consigliarmi perché, se si voleva fare una cosa bisognava che si operasse a dovere per realizzarla. Così avevamo scelto assieme il percorso migliore, mi aveva raccontato alcune sue escursioni per mettermi in guardia su eventuali pericoli, si era messo a stilare una lista di attrezzature e cose da portare per star via alcuni giorni dovendo dormire in una piccola tenda, avevamo raccattato qua e là il necessario, mi aveva accompagnato a fare la spesa, mi aveva insegnato un paio di nodi, come potabilizzare l'acqua, cosa fare se mi fossi ferito, etc. etc. Alla fine avevamo preparato assieme lo zaino e mi aveva portato su in Carnia con la macchina. Io gli mandavo la mia posizione GPS ogni volta che il cellulare prendeva e nel frattempo lui monitorava l'avvicinarsi di eventuali perturbazioni e soprattutto si preoccupava, scrivendomi in chat quel che bastava per incoraggiarmi nell'impresa. Senza il suo aiuto e la sua preparazione, non ce l'avrei fatta ad arrivare sano e salvo fin a Venzone, vista la mia scarsa esperienza, camminando quasi per tutti il tempo su sentieri o sul greto del fiume.
C'era un solo modo di fare le cose, per lui, o almeno di cercare di farle: con la testa.
Andava e veniva per i paesi della zona attaccando bottone con tutti, perché a volte un solitario cerca l'Uomo fra la gente, e Giancarlo sperava sempre di trovare una persona e una storia. All'inizio, se avevi l'avventura di conoscerlo, faceva strane espressioni e discorsi sconclusionati a posta per metterti in imbarazzo e scremare via subito chi era più attento ai convenevoli che alla sostanza. Nel suo comparire e scomparire con la bicicletta aveva un ritmo tutto suo, un respiro quasi, che mi faceva sempre venire in mente i racconti di Hesse sui misteriosi vagabondi che giravano per le sue terre, a volte simili a maghi in incognito, con una storia mai ben svelata dietro ad un paio di occhi un po' malinconici o inquieti.
Amava un sacco le donne, e ha cercato la sua guerriera per tutta la vita, senza mai trovarla, se non per piccoli tratti. Le ha amate tanto, troppo gli dicevo io, di quell'amore oltre le apparenze e la routine ma, soprattutto, contro tutti e tutto. Sì, lui voleva una tosta come lui, con cui fare fronte comune contro la banalità. Ha cercato tante volte un abbraccio e un dialogo che potesse vivere di null'altro che di se stesso, un ideale che forse non era di questa terra, e forse il suo cuore si è ammalato proprio del pompare così tante volte speranza e delusione.
Giancarlo aveva molti talenti, ma gli veniva più facile insegnare quello che sapeva agli altri, mettendoli avanti a lui sul palcoscenico. Aveva un caratteraccio, poco incline al compromesso e all'adulazione di chi era utile ma non meritevole. Così, se ad alcuni tutto è dovuto e ad altri niente viene riconosciuto, a lui era toccata la seconda sorte, quella del non essere valorizzato per quanto meritava rispetto a chi, a volte, ha la sola arte di farsi gli amici giusti.
Già, il Rossetti era un bel testone, e non lo fosse stato forse sarebbe ancora vivo e io non avrei mai sentito il dovere di scrivere queste righe per tentare di elaborare la mia parte di lutto.
Giancarlo aveva pochi soldi e tanti amici, e se anche avesse chiesto a ciascuno di noi un pasto e un letto una volta in un anno, non avrebbe mai dormito una sola notte in una tenda. Anche se, a dire il vero, l'avrebbe fatto lo stesso, perché quattro pareti e addirittura i finestrini chiusi di una macchina non facevano per lui. Era più interessante quello che si poteva vedere, fotografare o raccontare lungo lo scorrere del giorno, dall'alba al tramonto e oltre, cercando di mitigare le inquietudini del cuore grazie allo stupore di ciò che la luce poteva mostrare, fosse anche il fascio luminoso di una delle tante torce elettriche che aveva nelle tasche dei pantaloni o nello zaino, il suo guscio arancione pieno di tutto quello che poteva servire.
Aveva visto molte persone, fra cui sua madre, soffrire a lungo alla fine della vita, e diceva sempre che non avrebbe voluto vivere diventando un peso per qualcuno altro. Era forse l'unica cosa di cui aveva veramente paura, e la Morte ha deciso di prenderselo velocemente, come lui sperava accadesse. Trovare una soluzione ad un problema era il suo enigma preferito, e se la questione era complessa, quasi ti ringraziava per averlo spinto a ragionare a fondo e a studiare di più.
Giancarlo, se potesse comunicare con noi, ci direbbe che la sua è stata tecnicamente una morte perfetta. Ah, quanto l'amava la parola “tecnicamente”, quasi come lo spirito femminile.
Mi viene quasi da pensare che se fra tre giorni tornerà fra noi, probabilmente dirà: “Avete visto, non è poi così difficile resuscitare, bastava impegnarsi. Comunque sia, già che c'ero, ho detto a Dio che in effetti le cose, nel mondo, potrebbero tecnicamente essere organizzate un po' meglio e che dovrebbe...”